In arrivo dal 4 Dicembre 2022 in cinema selezionati e dal giorno 9 dello stesso mese sulla piattaforma Netflix, Pinocchio di Guillermo del Toro, come il titolo stesso suggerisce, è il lungometraggio tramite cui l’autore de Il labirinto del fauno e La forma dell’acqua rivisita in fotogrammi – affiancato al timone di regia da Mark Gustafson – la popolare fiaba scritta nel XIX secolo da Carlo Collodi.
E “rivisita” è proprio il giusto verbo da utilizzare, in quanto non solo la propone in una moderna variante della sempreverde animazione in stop-motion, ma ne stravolge buona parte dei personaggi (eliminandone addirittura alcuni) e dei contenuti. A cominciare dal fatto che, prima ancora che l’anziano falegname Geppetto intagli nel legno il burattino dal naso allungabile a suon di bugie portato sullo schermo, tra gli altri, da Luigi Comencini e da Matteo Garrone, lo vediamo impegnato a vivere con il figlio Carlo, destinato presto ad una tragica dipartita.
Un risvolto che già lascia avvertire il tono abbastanza lugubre che il cineasta messicano intende probabilmente conferire al suo lungometraggio; tanto più che toni horror emergono sia nella creazione del protagonista, con tuoni e lampi che accompagnano i violenti colpi inflitti sul ciocco a mo’ di coltellate da squartamento, sia dal fatto che, al posto della classica fatina, abbiamo lo Spirito del bosco e Morte, sorelle mascherate che donano e tolgono la vita.
Sorelle i cui connotati sembrano porsi a metà strada tra quelli di antiche divinità egizie e le caratterizzazioni di determinate creature aliene, alle quali presta la voce Tilda Swinton nella versione originale del film. Soltanto uno dei nomi noti facenti parte del cast vocale insieme a Gregory Mann, Ron Perlman, Cate Blanchett, John Turturro, Christoph Waltz ed Ewan McGregor; quest’ultimo doppiatore del Grillo parlante, a proposito di cui, a differenza delle altre versioni cinematografiche pinocchiane, vengono fornite nozioni riguardanti il suo background. Mentre Geppetto risulta decisamente più presente del solito, immerso nel fino ad oggi inedito contesto dell’Italia fascista in cui viene concesso addirittura spazio ad un Benito Mussolini dal disegno fortemente caricaturale. Un Benito Mussolini che si ritrova sbeffeggiato in una breve parentesi che, però, non sembra essere altro che un capriccetto liberatorio e gratuito dello stesso del Toro, considerando che l’episodio non ha poi il fondamentale seguito che avrebbe meritato. Soprattutto se pensiamo che, man mano che ci si ritrova in compagnia di Lucignolo in un corso di addestramento alla guerra che sostituisce chiaramente il consueto Paese dei balocchi, al di là dei momenti cantati e dell’immancabile ironia Pinocchio di Guillermo del Toro pone in maniera evidente l’accento sull’antirazzismo e sulla diversità.
Un aspetto intuibile sia dal fatto che Pinocchio finisce per ritrovarsi ad essere sfruttato come un fenomeno da baraccone, sia dall’epilogo finora mai visto nelle varie riletture che la Settima arte ha effettuato del testo di Collodi. Con la risultante di un’operazione che, altamente ritmata e non priva di poesia, coglie lo spettatore di sorpresa rientrando senza alcun dubbio tra il migliori lavori del più volte sopravvalutato Guillermo… anche e soprattutto grazie alle numerose, inaspettate trovate che ne caratterizzano lo script.
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