Gli Stati Uniti contro Billy Holiday: “eroina” del jazz

Nelle sale cinematografiche italiane a partire dal 5 Maggio 2022, da un libro di Johann Hari Gli Stati Uniti contro Billie Holiday cala Andra Day nei panni della popolarissima e celebratissima cantante di jazz e blues suggerita dal titolo. Ruolo che le è giustamente valso il Golden Globe come migliore attrice protagonista in un film drammatico.
Ma non si tratta di una biografia musicale volta a ripercorrere la carriera dell’artista, bensì della ricostruzione in finzione degli stratagemmi attuati dal governo federale statunitense nel tentativo di trasformarla nel capro espiatorio di una dura battaglia contro la droga prendendo di mira la sua tragica e complicata vita. Proprio nel periodo in cui, negli anni Quaranta, collezionava successi in tutto il mondo ed era diventata una vera e propria icona nell’universo delle note. Il motivo? Impedirle di eseguire la sua ballata Strange fruit, canzone di denuncia contro i linciaggi del governo degli USA, nonché contributo essenziale al movimento per i diritti civili.
Ed è in particolare la figura dell’agente federale Harry Anslinger interpretato da Garrett Hedlund a rappresentare le forze dell’ordine impegnate a mettere in difficoltà la donna, che apprendiamo essere dipendente da eroina; man mano che veniamo anche a conoscenza del suo passato segnato dal non facile rapporto con la madre.
Però, sebbene dietro la macchina da presa Lee Daniels tenti in ogni modo di far schierare lo spettatore dalla parte della Holiday, sorge spontaneo chiedersi come si possa provare empatia nei confronti di un personaggio del genere, tossicodipendente che, al di là delle lodevoli doti canore, manifesta quasi esclusivamente aspetti negativi.
Nell’assistere a Gli Stati Uniti contro Billie Holiday viene tranquillamente da pensare che non serviva di certo che le autorità mettessero di nascosto una dose di eroina in tasca all’artista per incastrarla, considerando che le oltre due ore di visione ce la mostrano spesso e volentieri impegnata ad iniettarsi proprio la pericolosa sostanza stupefacente.
Sorvolando, comunque, sull’aspetto di denuncia dell’operazione, con il quale lo spettatore decide di essere d’accordo oppure no, tra un’esibizione e l’altra della indimenticata Billie risulta evidente un’impostazione di taglio teatrale testimoniata in particolar modo dalla quasi totale ambientazione in interni. Un’impostazione che, a partire dall’intervista con Reginald Love Devine alias Leslie Jordan, contribuisce anche a valorizzare le lodevoli prove sfoderate dal cast, comprendente il Trevante Rhodes di Moonlight e la Natasha Lyonne del franchise American pie.
Mentre, senza dimenticare qualche fugace passaggio in bianco e nero, sono toni per lo più caldi a caratterizzare la buona fotografia di un’operazione che, in ogni caso, piuttosto fiacca dal punto di vista narrativo non riesce a nascondere una certa impronta televisiva… tanto da convincerci che il regista abbia saputo fare decisamente di meglio con titoli quali Precious e The Butler – Un maggiordomo alla Casa Bianca.

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