A cosa serve l’immaginazione?

Pensare è come respirare, e lo facciamo per lo più senza rendercene conto. I pensieri sono fondamentali per la nostra vita, ad esempio ci aiutano a decidere su come cavarcela in situazioni incerte o pericolose.
I pensieri non analizzano solo il presente o il passato: ci permettono di immaginare.
Ma a cosa serve l’immaginazione?
Nell’arco dei secoli, filosofi e scienziati si sono espressi in merito a questo complesso e ambiguo processo mentale, sottolineando come l’essere umano non sia influenzato solo dalla ragione, ma anche da emotività e fantasia.
I pensieri condizionano sia la struttura caratteriale che la realtà circostante, in positivo e in negativo, soprattutto se abbinati a una costante determinazione e intenzione ad agire. Sappiamo che non è affatto semplice stabilire un controllo dei pensieri, ed e per questo che spesso li subiamo passivamente e non riusciamo a tradurli nella realtà che vorremmo.
Ma se raggiungiamo la consapevolezza sulle potenzialità di questi meccanismi mentali, allora con molta probabilità potremmo iniziare veramente a direzionare i nostri pensieri e le nostre intenzioni verso obiettivi desiderati.
Ora ti chiederai: stiamo forse sconfinando dalla scienza ufficiale per tuffarci nella pura filosofia? Sembrerebbe proprio di no!
Fino alla metà del ‘900 la medicina ufficiale sosteneva che dopo l’infanzia e l’adolescenza il cervello non potesse più modificarsi, ad eccezione del lento e continuo deterioramento causato dell’età. Questa tesi mutò non appena alcuni scienziati dimostrarono che, al contrario, il nostro cervello modifica la propria struttura adattando e affinando i propri circuiti neuronali alle esperienze vissute. In pratica, attraverso questo processo di neuroplasticità, il nostro cervello è in grado di creare nuove connessioni neuronali a qualsiasi età.

Oggi grazie ai moderni strumenti come la risonanza magnetica funzionale o la Pet, possiamo persino osservare un cervello vivo, in funzione, e analizzarne l’evoluzione.
La scoperta rivoluzionaria è stata quella di constatare come la nostra mente, a livello subcosciente, non è capace di distinguere tra un evento reale e uno immaginario, nonostante ci sia molta differenza. Per l’esattezza, nell’atto di immaginare un evento si attivano le stesse aree del cervello, anche se non al 100%, che si attiverebbero se quell’evento fosse vissuto realmente. L’attività mentale prodotta dall’immaginazione può generare un’attività neuronale simile se non identica a quella originata da reali stimoli materiali. Detto in altri termini: un’immagine mentale può influenzare i nostri sensi tanto quanto un’immagine reale.
Se noi applichiamo questo nuovo paradigma, come purtroppo già facciamo involontariamente per i pensieri negativi, il nostro cervello non sarà più una registrazione del passato, bensì la mappa del nostro futuro.

Quando cominci ad apprendere una qualunque abilità, come suonare uno strumento musicale o parlare una lingua straniera, anche un gruppo di neuroni all’interno del tuo cervello comincia a dedicarsi ad essa. Si attiva così il ricondizionamento neuronale: si creano nuove connessioni sinaptiche, o si rafforzano quelle già esistenti se corrispondenti all’esperienza appresa.
Il ripetersi di un pensiero, un concetto, un’esperienza rafforza il circuito neuronale corrispondente, fino a che il pensiero originario diviene una convinzione. E’ così che il nostro cervello si riprogramma per raggiungere determinati obiettivi.
Se ad esempio dobbiamo scegliere tra varie opzioni, il nostro cervello adeguatamente riprogrammato sarà in grado di scartare quelle inutili e indirizzarci verso quella ottimale.

Possiamo quindi credere in un futuro che non possiamo vedere o sperimentare con i sensi, ma che ha già avuto luogo diverse volte nella nostra immaginazione, al punto da essere cablato nel nostro cervello. E’ una legge quantica: l’ambiente che ci circonda è un’estensione della nostra mente. Quando cambiamo la nostra mente, cambia la nostra vita.
Tutto ciò l’avevano intuito molti filosofi migliaia di anni fa.

“Siamo ciò che facciamo ripetutamente. Pertanto, l’eccellenza non è un’azione, bensì un’abitudine”.

Aristotele

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Foto: Pixabay