A trentadue anni da Killing birds – Raptors, il regista Claudio Lattanzi, torna con Everybloody’s End, il suo secondo lungometraggio di finzione horror, attualmente in post-produzione, ma anche con il documentario Aquarius visionarius – Il cinema di Michele Soavi. «In effetti è trascorso molto tempo – precisa Claudio Lattanzi – dopo Killing Birds dovevo girare, sempre per la Filmirage la casa di produzione di Aristide Massaccesi, La Casa 4 – Witchcraft, tratto da un mio soggetto scritto insieme allo sceneggiatore Daniele Stroppa. Per una serie di circostanze non feci più il film ma continuai a collaborare con Aristide facendo l’adattamento televisivo dello sceneggiato Lo Scorpione a due code, per la regia di Sergio Martino. Erano i primi anni 90 quando decisi di smettere e dedicarmi ad altro. Mi sono riavvicinato al cinema intorno al 2000 collaborando con alcune società legate alla rai, come Interferenze di Stefano Balassone. Mi sono così orientato verso la scrittura di format televisivi e sceneggiature varie, fino al 2008 quando un mio cortometraggio La vita è già finita? è stato realizzato in collaborazione con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Direzione Generale Cinema. Era il momento di girare nuovamente un film horror, ma era molto difficile cercare di chiudere un progetto di genere e quindi ci è voluto ancora del tempo. In definitiva posso dire che da Killing Birds a Everybloody’s End non mi sono affatto annoiato. Ho voluto girare questo horror proprio ora perché penso che in questo preciso momento storico sia possibile girare un film indipendente anche con basso budget e ottenere un prodotto professionale grazie alla notevole evoluzione che il digitale ha avuto negli ultimi anni».
Da dove nasce l’idea per il film?
L’idea del film nasce dall’ultima scena che si vede ma che non posso svelare per ovvie ragioni.
Ma nasce anche dall’esigenza e dalla voglia di raccontare una storia horror facendo un omaggio ai vecchi film della gloriosa casa di produzione inglese Hammer film. Il mio scopo era quello di raccontare una storia che avesse quelle atmosfere e che fosse diversa da quelle prodotte negli ultimi tempi. In più non volevo ricorrere assolutamente a vari jump o situazioni simili per suscitare paura nello spettatore. Ma man mano che si scriveva la sceneggiatura, mi sono accorto che la storia aveva preso un’altra direzione e non aveva alcun riferimento con le pellicole della Hammer. Avevo scritto un horror autoriale, claustrofobico con un finale che omaggia il cinema di genere.
Ci racconti, in breve, la trama?
Premetto che la storia è molto classica con riferimenti ben precisi al cinema horror: i canoni sono quelli conosciuti da tutti gli appassionati di questo tipo di cinema. Però durante le riprese,
ho cercato di creare un mio stile personale, non eccedendo nel grand guignol, ma esasperando al massimo alcune situazioni. Everybloody’s End si svolge in un tempo indefinito. In un sotterraneo-bunker cinque persone lottano per la sopravvivenza: le tre donne Bionda (Cinzia Monreale), Nera (Veronica Urban) e Rossa (Nina Orlandi), Steiner un teologo (Giovanni Lombardo Radice) e un giovane dottore Michael (Lorenzo Lepori). Fuori dal nascondiglio regna l’Apocalisse: il male è stato generato da un paziente zero e, di conseguenza, un gruppo di ex soldati chiamati “Sterminatori” provvede alla crocifissione di ogni persona che incontra sulla propria strada, in modo da cercare l’origine del flagello. Ma i cinque sono veramente al sicuro o nel posto in cui sono rifugiati c’è qualcosa di cui non sono a conoscenza?
Hai assemblato un cast decisamente ricco per gli appassionati di cinema horror. Come hai scelto gli attori?
L’idea di coinvolgere attori e tecnici che hanno lavorato nei film horror degli anni ‘80 è sempre stata l’idea di partenza del progetto. Mi piaceva cercare di dare una connotazione forte e ben precisa al film e questo lentamente è avvenuto una volta contattato lo sceneggiatore Antonio Tentori. Antonio è stato il primo tassello: è un nome molto noto nel panorama horror e vanta il pregio di aver collaborato con registi come Dario Argento e Lucio Fulci, quindi molto adatto a scrivere una storia di genere come volevo che fosse la mia. Così, durante le varie sedute di sceneggiatura, abbiamo iniziato a parlare dei vari personaggi e di quali attori potessero interpretare quei ruoli. Conoscevo diverse persone che avevano fatto parte di quel cinema a me caro, e avevo lavorato anche con molti di loro quindi sono stato facilitato nelle mie scelte. E’il caso di Giovanni Lombardo Radice, insieme abbiamo fatto due film di Michele Soavi dove io ero stato assistant director: Deliria e La Chiesa. La potenza visiva di Giovanni è stata devastante. I suoi primi piani, le lunghe pause e i perfetti tempi di recitazione hanno dato sicuramente spessore alla pellicola. Ma il mio intento era anche quello di contrapporgli due attrici molto conosciute: una nel ruolo della protagonista, che in questo caso è stata Cinzia Monreale e l’altra per una partecipazione speciale, Marina Loi. Entrambe hanno lavorato in film cult degli anni ‘80, Cinzia in …E tu vivrai nel terrore! L’Aldilà e Buio omega e Marina interprete di Zombi 3 e Demoni 2 – L’incubo ritorna. Due attrici molto brave che in qualche modo non volevo mai abbandonare. Per questo ho cercato di unire l’una all’altra durante tutto il film, in una sorta di sogno ad incastro, anche se i loro ruoli erano differenti. Altri attori che hanno fatto parte del cast sono stati Veronica Urban, Lorenzo Lepori e Nina Orlandi. Sono riuscito a coinvolgere anche due giganti del nostro cinema: lo scenografo M. Antonello Geleng, che ha supervisionato la parte artistica e mi è stato di grande aiuto nelle lunghe sedute che facevamo durante la preparazione e Sergio Stivaletti che si è occupato degli effetti speciali. Due amici che mi hanno aiutato con la loro professionalità e la loro esperienza.
Infine le musiche sono state composte dal Maestro Luigi Seviroli che è stato anche l’autore delle musiche di due film televisivi di Soavi: Attacco allo Stato e Nassiriya – per non dimenticare, mentre il direttore della fotografia è stato Ivan Zuccon che è riuscito a creare una luce molto profonda: tutto il film è pervaso da chiaro/scuri molto intensi. Era difficile riuscire a dare la connotazione che avevo in mente al film, ma Ivan mi ha capito ed è riuscito a darla. E’ stato un vero piacere collaborare con lui.
Tra l’altro sappiamo che sei stato alla prima edizione dell’Asylum Fantastic Fest con il tuo documentario Aquarius visionarius – Il cinema di Michele Soavi. Puoi parlarcene un po’?
Partecipare all’Asylum Fantastic Fest con il mio documentario è stata una bella esperienza e ringrazio Claudio Miani e Roberto E. D’Onofrio, i due direttori artistici, di avermi invitato. In questo modo Aquarius Visionarius continua il suo percorso di crescita dopo aver partecipato al Sitges Film Festival e al Fantafestival di Roma, con il preciso intento di far conoscere meglio il cinema di Michele Soavi. Il documentario nasce da un’esigenza ben precisa: realizzare un’opera filmica completa di un autore che conoscevo benissimo, volevo raccontare in qualche modo tutto il suo mondo, tutta la sua visionarietà. E’ stato entusiasmante e molto impegnativo. Impostare il tutto è stato molto arduo, perché dovevo raccontare l’opera filmica di un autore che ha attraversato quasi tutti i generi. Credo che Soavi sia uno degli autori più completi del cinema italiano e anche uno degli autori più visionari e criptici. Forse proprio l’aspetto visionario della sua filmografia mi ha dato l’idea giusta e vincente di come esporre il tutto. Quindi ho cercato di creare un documentario che non fosse didascalico ma che avesse invece tutte le connotazioni per poter assomigliare ad un film. Ho girato sceneggiature che venivano sfogliate, ho introdotto riferimenti pittorici, ho approfondito sogni, ho estremizzato i passaggi da un film all’altro anche contrastandoli! Il Sacro e il profano sono stati messi sullo stesso piano e ogni fotogramma introdotto era studiato, nulla è stato lasciato al caso. Anche la scelta di non seguire mai una cronologia prestabilita è stata risultata vincente. Inoltre è stato fatto un lavoro enorme di scrittura e di montaggio. L’impatto iniziale del documentario è notevole: in un solo minuto ho mostrato l’intero mondo di Soavi, un mondo che caratterizza ogni sua opera e l’impatto che quest’opera ha sullo spettatore è dirompente! Altro aspetto notevole è invece la fine, dove ho raccontato ciò che è dentro Soavi, la sua sensibilità e il suo mondo filmico, relazionandolo in qualche modo al mondo interiore di Terry Gilliam. La sequenza dei sogni è sospesa fra realtà e immaginazione, dove lo spettatore si identifica con le sue ricorrenti visioni. Alla fine penso di aver fatto un ottimo lavoro e di questo sono molto soddisfatto, senza dimenticare che Aquarius Visionarius è il primo documentario su Michele Soavi e di questo sono molto orgoglioso.
In Everybloody’s End è presente anche una partecipazione straordinaria per l’effettista Sergio Stivaletti. in cosa consiste la sua partecipazione?
In Everybloody’s End mi sono anche divertito a far fare un cameo al mio amico Sergio Stivaletti che, come ho detto prima, ha curato gli effetti speciali del film. Nel prologo iniziale, che si svolge in un altro tempo, c’è un personaggio che rivelerà la sua identità verso la fine del film. Sergio aveva le caratteristiche fisiche giuste e quindi era perfetto per questo piccolo ma importante ruolo. Così ha accettato senza alcun timore o problema e devo dire che ha sicuramente dato potenza visiva all’intera scena dove ha recitato.
A quali registi ti ispiri per il tuo lavoro?
In passato mi hanno ispirato molti registi, italiani e non, come Fritz Lang, Hitchcock, Polanski, Argento e Fulci. Ma durante le riprese di Everybloody’s End mi sono accorto che ho avuto delle influenze seppur minime di due autori che in passato ho amato molto: Jesus Franco e Paul Morissey.
Secondo te, in Italia oggi è ancora possibile fare cinema horror?
Non nascondo che cercare di fare un film horror in Italia è un’impresa titanica. Il più delle volte si è costretti a rivolgersi a produzioni indipendenti con budget estremamente bassi. Ma la cosa più triste è che se anche riesci a portare a termine un film, è quasi impossibile trovare una distribuzione che ti possa permettere l’uscita in una sala cinematografica e questo è molto frustrante per un autore. Il paragone con gli anni d’oro è imbarazzante. All’estero, vedi ad esempio la Spagna, la situazione invece è migliore e i film di genere vengono incentivati e portati avanti. Spero solo che le nostre piccole realtà produttive e distributive, soprattutto per il mercato home, che sono nate da qualche anno, possano piano piano portare a dei cambiamenti, perché essendo un appassionato e un uomo di cinema, io ci credo ancora e spero che qualcosa possa cambiare!