Manovra economica

Oltre il Velo di Maya: la manovra al 2,4%

La “Manovra del popolo”, partorita al termine di un lunghissimo travaglio, caratterizzato da un tira e molla tra i due vice Premier e il ministro dell’economia Giovanni Tria, rappresenta la prima sfida che il governo Giallo-Verde ha voluto portare all’Europa, spettatrice interessata. Il 2,4% del rapporto Deficit/Pil, previsto dalla manovra, si allontana dai desiderata di Bruxelles, che puntava ad un maggiore contenimento delle spese. Da lì in poi si sono scatenati i balletti dei mercati, così come i vari allarmi lanciati dai commentatori. Ma cosa c’è dietro una scelta apparentemente in controtendenza rispetto al passato?

Il dramma del deficit? – A leggere i dati, il 2,4% di deficit non è affatto un’eresia fuori dal mondo. Lo scorso anno il rapporto deficit/pil si è aggirato attorno alla medesima percentuale, così come nel 2017. Più alto ancora nei due anni precedenti. In media, nell’ultimo quinquennio esso è calcolato intorno al 2,68%. Nulla di clamoroso dunque dalla manovra uscita dall’esecutivo Salvini-Di Maio, anche tenendo conto del fatto che i vincoli di Maastricht prevedano un rapporto deficit/pil del 3% come limite massimo. Un dato già privo di base statistica, che comunque non è stato violato.

È tutto oro quello che luccica? – Nella manovra sono previste una serie di riforme che marcano una sostanziale differenza, almeno sul piano formale, rispetto agli esecutivi precedenti, con una maggiore tendenza alla spesa pubblica per rilanciare i consumi interni, seppelliti da anni di politiche deflattive. Ma in realtà non è tutto oro quello che luccica, come sottolinea l’analisi di mercato effettuata da Moneyfarm. Spieghiamoci meglio. Il 2,4% rappresenta il disavanzo totale, ossia la differenza tra la spesa totale, comprensiva degli interessi sul debito, e le entrate. Ora, la spesa per gli interessi non ha impatti positivi sull’economia, contrariamente alla spesa primaria. Importante, in questo senso, il dato che indica la differenza tra la spesa primaria e le entrate, da cui si ricava il saldo primario. Nel 2017, l’Italia ha chiuso con un rapporto deficit/Pil del 2,3% circa. La spesa per gli interessi sul debito è stata circa del 3,8%, il che vuol dire che il paese ha generato un avanzo primario di un punto e mezzo. Le entrate hanno superato la spesa primaria. In altre parole, austerità. Nel 2018, con un debito sempre altissimo, le cose non paiono poter subire un reale cambio di rotta.

Il panico dei mercati – L’Europa si attendeva una ulteriore riduzione del rapporto deficit/Pil così come avvenuto nel recente passato. Questo spiega in parte le reazioni di disappunto dell’UE nonostante, come si è visto, il 2,4% sia ben lontano da una politica inflattiva. Il rischio per il paese, naturalmente, è l’innesco del solito circolo della paura, che parte da una riduzione degli investimenti da parte dei mercati e passa per un aumento dei tassi di interesse sui Titoli di Stato a medio e lungo termine, per concludersi con l’aumento vertiginoso del debito pubblico (che comunque, macroeconomicamente parlando, non è il male assoluto). Aumento dello Spread equivale ad aumento dei mutui? No, perché i mutui a tasso fisso sono indicizzati all’Euribor, che calcola la media dei tassi di una serie di banche europee. Da questo punto di vista, nessun rischio per le famiglie. Il vero problema è rappresentato, come si è visto, dallo scarso impatto della manovra sul saldo primario. In questo senso, con un Pil che stenta a decollare (i dati del governo sono pure fin troppo ottimistici in tal senso), il rapporto debito/Pil è destinato ancora a farsi sentire.