Wes Anderson, adorato dalla critica da una sua nutrita cerchia di fan, ma ormai lanciato nel “suo” cinema che risulta per chi vede per la prima volta un suo film decisamente incomprensibile. Nonostante precedenti grandi successi, come ad esempio l’ottimo e super divertente Grand Budapest Hotel, e l’incomprensibile French Dispatch, Asteroid city si colloca a metà dei due estremi di queste recenti pellicole del regista.
Forte del fatto di un cast di enorme richiamo, Asteroid City riprende tutti i classici e inconfondibili stereotipi del cinema di Anderson, un marchio di fabbrica ormai immutato, e se suoi film piacciono o non è sempre Wes Anderson, ci dice una certa critica e i suoi fan.
Il risultato di questa pellicola è frutto di tutte le singolarità di Wes, piacevoli nella sua stopmotion, nelle scenografie finte e irreali, nei suoi personaggi stralunati con una storia, o meglio in questo caso una non storia piena di citazioni e metacinema.
Del resto Anderson lo dice fin dall’inizio a suoi spettatori con il narratore (interpretato da Bryan Cranston) che racconta con parole e immagini in bianco e nero la genesi di questa pièce teatrale scritta da un noto commediografo (Edward Norton) e messa in scena da un famoso regista o presunto tale (Adrien Brody). Il bianco e nero passa al colore del film dove troviamo tra i protagonisti Jason Schwartzmann, Scarlett Johansson, Tom Hanks, Maya Hawke e tutti gli altri. La storia di un gruppo di personaggi riuniti in una sperduta cittadina, giunti per un premio da assegnare ai giovanissimi appassionati di scienza e spazio, titolo della pièce: Asteroid City.
Con aperte citazioni di Will il Coyote e le casse dell’ACME delle serie a cartoni della Warner Bros., Asteroid City intreccia tutta la sua strampalata storia, ma lo ammettiamo a volte divertente, sui problemi e tormenti dei personaggi, con Schwarzmann fotografo di guerra che deve elaborare il lutto della moglie con i suoi quattro giovani figli al seguito. Quest’ultimo incontra l’amore della tormentata attrice A-la Monroe interpretata dalla Johansson. Ma tutto il dipanare della storia la rende quasi impossibile da recensire con parole scritte, magari questo era il vero scopo del regista.
Il risultato finale è uno sguardo nostalgico sull’America degli Happy Days, con quegli anni ’50 rappresentati nei vestiti e arredamenti, con tanto di apparizione di un UFO simbolo di pericolo o forse di nuove possibilità. Tutto è intriso del gusto nostalgico che ormai fa parte del suo Dna registico, che in ogni immagine del film vuole forse ricordarci che è un suo film. Forse proprio per questo rischia che lo spettatore, che si trova al di fuori della sua cerchia di fan, si appunti bene il suo nome per evitare le proiezioni delle sue prossime opere cinematografiche, ma non i critici. Dunque concludo invitandovi a visionare questa nuova opera del geniale Wes Anderson.
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