Senza alcun dubbio, è quello del Jeffrey Dean Morgan della serie televisiva zombesca The walking dead il nome di punta di Fall, il cui avvio con Mason Gooding, Grace Caroline Currey e Virginia Gardner impegnati a scalare una imponente parete rocciosa non può fare a meno di richiamare subito alla memoria le imprese dell’Ethan Hunt del franchise Mission: impossible, non a caso verbalmente citato.
Ma, con il giovane che, fidanzato della prima delle due, è destinato a perdere immediatamente la vita proprio durante l’impresa, Morgan in realtà ricopre soltanto il marginale ruolo del padre della medesima ragazza; la quale viene poi convinta dalla seconda a salire sulla cima di un’antenna di trasmissione immersa in una zona desertica e rientrante tra le strutture più alte degli Stati Uniti.
Quindi, la oltre ora e quaranta di visione concede il minimo del tempo necessario alla presentazione dei personaggi per catapultare poi la coppia di amiche a settecento metri di altezza, dove rimangono bloccate e costrette, di conseguenza, a lottare per la sopravvivenza e a sperare che qualcuno si accorga presto di loro.
Perché Fall rientra nella tipologia di survival movie a situazione unica caratterizzata da un ristretto campo d’azione, un po’ come il Buried – Sepolto di Rodrigo Cortés o il 47 metri che, diretto nel 2017 da Johannes Roberts, venne prodotto proprio dagli stessi James Harris e Mark Lane produttori dell’operazione in questione.
Del resto, lì, in maniera analoga, avevamo due sorelle intrappolate nelle profondità marine all’interno di una gabbia d’osservazione e circondate da squali qui sostituiti da avvoltoi in agguato, sebbene l’insieme non rientri affatto nel filone eco-vengeance (sottogenere dell’horror comprendente titoli a base di animali assassini).
Però, se 47 metri si rivelò un non disprezzabile elaborato e nulla più, Fall si guadagna a tutti gli effetti la classificazione di uno dei maggiormente riusciti film appartenenti alla stessa categoria; e i meriti gli vanno riconosciuti su diversi fronti.
Infatti, se da un lato lo spettatore è tenuto costantemente in tensione tramite dettagli proto-Final destination atti a mostrare pioli che cedono e allentamenti di tiranti e avvitature, dall’altro, soprattutto se sofferente di vertigini, viene messo a durissima prova dalle inquadrature a piombo e dai molti totali di larghissimo respiro che lo trasportano sulla non troppo ampia superficie dove le due protagoniste poggiano i loro piedi.
Protagoniste che, in assenza di campo per poter telefonare o inviare messaggi, hanno a disposizione soltanto un binocolo, una pistola lanciarazzi per segnali di soccorso, una corda non troppo lunga e un drone. Pochissimi oggetti che, comunque, bastano al regista Scott Mann – autore dei serrati The tournament e Final score – e al suo co-sceneggiatore Jonathan Frank per sbizzarrirsi nella stesura di un coinvolgentissimo script ricco di trovate da sfruttare nel limitato spazio di movimento a disposizione.
Uno script che, nel ricordare che la vita è un soffio, riserva oltretutto un inaspettato colpo di scena pre-epilogo che va ad affiancare le mai banali soluzioni dispensate di volta in volta.
Interviste al cast
Trailer
https://www.youtube.com/watch?v=VqNVYC-JrMc