Sulle note della blueseggiante Night time is the right time apre Don’t worry darling, secondo lungometraggio diretto dall’attrice newyorkese Olivia Wilde, tre anni dopo il debutto dietro la macchina da presa La rivincita delle sfigate, del 2019.
La Olivia Wilde che, però, non ne è protagonista, ritagliandosi soltanto il ruolo secondario di Bunny per porre al centro delle due ore di visione la Florence Pugh di Black widow nei panni della Alice dolce metà di Jack alias Harry Styles, residenti nella comunità idealizzata di Victory. Una città realizzata da un’azienda sperimentale e in cui le donne si godono i piaceri del lusso mentre i mariti lavorano quotidianamente ad un progetto top secret sotto l’occhio dell’amministratore delegato Frank interpretato da Chris Pine, visionario uomo d’azienda che ha deciso di sposare l’ottimismo sociale degli anni Cinquanta.
Vite praticamente perfette che, però, lasciano immediatamente intuire qualcosa di sinistro stia per accadere dal momento in cui, complice l’introduzione di visioni da incubo, la Wilde provvede a trascinare l’insieme in un sempre più crescente clima di follia e paranoia suggerente, in un certo senso, proprio echi provenienti dall’epoca cinematografica de L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel.
Sebbene siano soprattutto La fabbrica delle mogli di Bryan Forbes e Matrix dei fratelli Wachowski a tornare in mente nel corso di un thriller psicologico dai connotati fantascientifici tramite cui la regista intende fornire un interrogativo: sareste disposti a mandare all’aria tutto un sistema progettato per soddisfare ogni vostro bisogno?
Interrogativo che sfodera tirando in ballo, appunto, esistenze in cui chiunque ha tutto ciò che ha sempre voluto, dalle cose materiali o tangibili al vero amore. Quanto è disposta a perdere Alice per far emergere cosa sta realmente accadendo in quello che agli occhi di tutti sembrerebbe un paradiso?
Parliamoci chiaro, i romanticissimi anni Cinquanta americani erano sul serio un vero paradiso, in particolar modo se confrontati al sempre più ipocrita terzo millennio, in cui si predica il politically correct e si giustificano nei modi più impensabili mercificazione del corpo e sballi assortiti che, in nome di una presunta libertà, provocano soltanto danni all’essere umano.
Quindi, Don’t worry darling si presenta da un lato in qualità di sufficientemente coinvolgente film di tensione che, come già accennato, non può fare a meno di richiamare alla memoria altri precedenti modelli da schermo, dall’altro come non sempre condivisibile critica in fotogrammi nei confronti di quella cosiddetta “società patriarcale” che finisce, però, paradossalmente per conquistare anziché disgustare lo spettatore. Complici in particolar modo l’accattivante, colorata estetica resa con notevole cura e la ricca colonna sonora di splendide vecchie hit. Da Tears on my pillow a To know him his love to him, passando per Sh-Boom, You belong to me e The end of the world.
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