L’aspetto che maggiormente incuriosisce de L’esorcismo di Emma Schmidt – The ritual, nelle sale cinematografiche italiane a partire dal 29 Maggio 2025, è, senza alcun dubbio, il fatto che si tratti di un horror interpretato dal vincitore del premio Oscar Al Pacino.
Del resto, se guardiamo la lunga filmografia di colui che è considerato uno dei migliori attori della Settima arte, ci rendiamo conto del fatto che nelle sue oltre sessanta partecipazioni non sia presente alcun titolo strettamente legato al genere in questione (anche se, volendo proprio fare un’eccezione, potrebbe rientrarvi L’avvocato del diavolo).
Quindi, sotto la regia di David Midell lo vediamo nei panni di Theophilus Riesinger, anziano sacerdote cui, nell’America del 1928, viene affidato il caso della giovane Emma Schmidt alias Abigail Cowen, portata in un convento nelle campagne dello Iowa, vicino alla cittadina di Earling, in quanto, morta sua madre, ha cominciato ad assumere uno strano comportamento.
In fin dei conti, l’uomo è esperto di esorcismo e la Chiesa è convinta che la ragazza sia posseduta da uno spirito maligno; mentre padre Joseph Steiger, dal volto di Dan Stevens, irremovibilmente propenso a cercare rimedi tramite la medicina, nel documentare tutto si trova ad assistere ad una trasformazione che en avrebbe mai creduto possibile.
Ed è proprio il rapporto conflittuale tra i due protagonisti in abito talare a dominare in maniera principale la quasi ora e quaranta di visione atta a raccontare in fotogrammi la vera storia della donna del titolo, al centro negli anni Venti, appunto, di quello che è stato riconosciuto quale caso di possessione più documentato di sempre.
Caso che ha ispirato molta letteratura e film dell’orrore, ma che qui viene portato in scena in modo che ad emergere sia un forte realismo; tra scelta di non ricorrere ad effetti speciali “esagerati” e poco credibili e abbondanza di riprese a camera tutt’altro che fissa, tanto da suggerire quasi il look delle inchieste giornalistiche.
Riprese per lo più destinate a restituire dettagli e campi stretti in una abbastanza movimentata operazione che, ambientata quasi del tutto in interni e dunque manifestante una certa teatralità nell’impostazione generale, spinge come c’era da aspettarsi lo spettatore ad attendere l’arrivo del rito conclusivo.
Un’operazione che si lascia tranquillamente guardare senza generare grossi entusiasmi e in cui, comunque, la presenza paciniana si rivela alla fine dei giochi irrilevante e utile soltanto ad avere in cartellone un nome di lusso della Settima arte.