Prima che ci si sposti in Italia nell’inverno del 1946, è nell’Iowa autunnale dello stesso anno che prende avvio L’orto americano, che, nelle sale cinematografiche a partire dal 6 Marzo 2025, segna il ritorno all’horror gotico per Pupi Avati, a sei anni da Il signor Diavolo, del 2019.
Perché, sebbene rientri nel filone in cui il cineasta bolognese ha avuto modo di regalarci, tra gli altri, La casa dalle finestre che ridono e Zeder, è fondamentalmente una storia d’amore vero come lo si concepiva in periodi storici molto più romantici del XXI secolo quella portata in scena nella oltre ora e quaranta di visione con protagonista che, trasferitosi negli Stati Uniti nella casa accanto a quella di un’anziana madre afflitta dalla misteriosa scomparsa della figlia, si mette proprio alla ricerca di quest’ultima.
E, mentre l’orto suggerito dal titolo è quello che, abbandonato e inquietante, separa l’abitazione americana del Mid West in cui lui alloggia da quella della donna, è chiaramente anche un giallo fornito di consistente parentesi processuale a prendere progressivamente forma davanti agli occhi dello spettatore.
Un giallo il cui buon cast – da Chiara Caselli a Nicola Nocella, passando per Andrea Roncato, Massimo Bonetti e Claudio Botosso – sfoggia non poche vecchie conoscenze dei set avatiani, con l’aggiunta, tra gli altri, di Roberto De Francesco e di un magistrale Armando De Ceccon nel ruolo di suo fratello imputato di omicidio.
Un giallo approdante ad un colpo di scena sicuramente scontato, ma di cui poco ci importa, in quanto il caro vecchio Pupi, senza dimenticare tematiche care al proprio cinema quali i ricordi e la malattia mentale, coinvolge attraverso i suoi consueti lenti ritmi di narrazione in un’atmosfera dal sapore quasi onirico per condurre ad un affascinante epilogo che sembra prestarsi a più interpretazioni.
Testimoniando oltretutto non solo l’immancabile padronanza della macchina da presa nel miscelare più sottogeneri e in sequenze come quella altamente drammatica della fucilazione che avviene fuori campo, ma anche la capacità di ricorrere a felici intuizioni che, con meno di dieci film dell’orrore all’attivo, lo hanno reso maestro italiano del filone fornendo una personale impronta.
Basterebbe citare l’incubo con barattolo annesso che, grazie anche al fondamentale contributo degli effetti speciali a cura di Sergio Stivaletti, non ha assolutamente nulla da invidiare ad analoghe produzioni d’oltreoceano e, anzi, ci riporta a quelle che da troppi anni non facciamo più e che proprio all’estero spesso ci invidiavano e copiavano.