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Vincent deve morire: mamma, ho perso la brocca

Una società distopica, sempre più violenta e individualista, spinta all’estremo.
Sostanzialmente, è questo che mette in scena Stéphan Castang nel suo lungometraggio d’esordio Vincent deve morire, co-produzione tra Francia e Belgio in arrivo nelle sale cinematografiche italiane il 30 Maggio 2024.
Reduce da una candidatura agli European Film Awards, una ai César e due ai Lumière Awards, infatti, la oltre ora e cinquanta di visione ci lascia giusto il breve tempo necessario per fare conoscenza con il grafico pubblicitario suggerito dal titolo che ce lo mostra colpito improvvisamente al volto mentre è sul posto di lavoro.
Grafico pubblicitario incarnato da Karim Leklou e per il quale questa finisce purtroppo per rivelarsi soltanto la prima di una serie di aggressioni ai suoi danni da parte di chiunque incontri sul proprio cammino; come se la sua presenza scatenasse un raptus omicida in coloro che ne incrociano lo sguardo, per poi tornare in sé.
E sono perfino due bambini a trasformarsi in pericolosi avventori alla vista del povero Vincent; man mano che il clima di follia e paranoia emergente quasi subito dall’operazione sembra portarci in un certo senso dalle parti de La città verrà distrutta all’alba, diretto nel 1973 da George A. Romero.
Del resto, se il momento in cui abbiamo un’autentica esplosione di violenza nel mezzo del traffico trasmette sensazioni di puro horror, quello che tira in ballo un attacco in massa verso l’automobile di Vincent non può fare a meno di richiamare alla memoria le situazioni tipiche del filone zombesco, che ha visto proprio nel citato Romero il suo maestro assoluto.
Tutte premesse che lasciavano tranquillamente presagire in Vincent deve morire – destinato oltretutto a porre preso la cameriera Margaux alias Vimala Pons al fianco del protagonista – il potenziale di film dell’anno… ma, purtroppo, i risultati non sono quelli sperati.
Il motivo? Se da un lato, con una lenta evoluzione narrativa, il tutto non tarda ad apparire eccessivamente tirato per le lunghe, dall’altro troppi interrogativi paiono rimanere in sospeso, tanto che sfugge perfino quale possa essere l’effettiva metafora di fondo pensata da Castang. Guardabile, ma non pienamente riuscito, dunque.

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