Dante è un progetto che il bolognese classe 1938 Pupi Avati – reduce dal Lei mi parla ancora grazie al quale ha portato nel 2021 Renato Pozzetto ad essere candidato ai David di Donatello – inseguiva da ben vent’anni e la cui genesi va individuata nelle parole del cineasta stesso: «A farmi intravedere la possibilità di raccontare quell’essere umano ineffabile che fu l’Alighieri è stata la scoperta della missione di Giovanni Boccaccio nel 1350: quella di portare a Ravenna, alla figlia di Dante, una borsa di dieci fiorini per risarcirla del tanto male che i fiorentini avevano fatto a suo padre. La gran parte della mia narrazione la debbo quindi allo stesso Boccaccio, che di Dante fu biografo e appassionato divulgatore».
È su queste due linee narrative che la oltre ora e mezza in costume viene messa in piedi da colui che ci ha regalato, tra gli altri, La casa dalle finestre che ridono e Il signor Diavolo, il quale sembra appunto non dimenticare la sua passione per l’horror nel tirare in ballo anche impressionanti sequenze come quella della visione in cui Beatrice, dalle fattezze della bella Carlotta Gamba, mangia un cuore.
Per non parlare di una certa cupezza generale rafforzata dalla fotografia di Cesare Bastelli; man mano che il citato Boccaccio incontra figure che interagirono con l’Alighieri negli ultimi anni dell’esilio ravennale e che il ricco, valido cast sfodera, nel mucchio, Enrico Lo Verso, Alessandro Haber, Leopoldo Mastelloni, Mariano Rigillo, Eliana Miglio, Gemma Donati ed Erica Blanc. Più un Gianni Cavina alla sua ultima prova sullo schermo prima della scomparsa e al quale, insieme allo scrittore Marco Santagata, al filologo e accademico Emilio Pasquini e al pianista jazz Amedeo Tommasi Dante, come era immaginabile, è dedicato.
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