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Elvis: Hanks e bacino per Baz Luhrmann

È attraverso le parole di un colonnello Tom Parker incarnato da un Tom Hanks in aria di premio Oscar quanto l’ingombrante trucco che lo trasforma ingrassandolo che seguiamo Elvis, lungometraggio in cui l’australiano Baz Luhrmann – autore di Moulin Rouge! e Il grande Gatsby – racconta, appunto, il rapporto tra l’enigmatico manager e il re del rock che ci ha regalato hit del calibro di Jailhouse rock e Hound dog.
Un enigmatico manager convinto che il mondo dello spettacolo sia quello degli imbonitori e che, in mezzo a una That’s al right (mama) e una Burnin’ love, seguiamo in un arco temporale di circa vent’anni, dagli esordi alla fama di un Elvis Presley incarnato da un convincente Austin Butler.
Un Butler che, dunque, va ad aggiungersi alla folta schiera di attori che hanno prestato sullo schermo (soprattutto piccolo) il volto a colui che venne soprannominato “The Pelvis”, comprendente, tra gli altri, il Kurt Russell di Elvis, il re del rock di John Carpenter, il Dale Midkiff di Elvis and me di Larry Pearce e il Jonathan Rhys Meyers di Elvis, diretto da James Steven Sadwith.
Colui che raggiunse la celebrità sullo sfondo di un’America all’insegna della perdita dell’innocenza, segnata anche dal suo erotico movimento d’anca e bacino che Luhrmann tende non poco ad accentuare tramite insistite inquadrature ad altezza pube del protagonista.
Inquadrature che, magari, avremmo preferito diminuire di numero per riservarle ad altre figure mitiche del rock tirate solo fugacemente in ballo; a cominciare dallo scatenato Little Richard di Alton Mason, che ci dispensa almeno un’esecuzione di Tutti frutti.
Per il resto, man mano che troviamo in scena Olivia DeJonge nei panni dell’amata Priscilla e che ascoltiamo in diverse salse la mitica Can’t help falling in love, l’impressione iniziale è quella di trovarsi dinanzi ad un’opera decisamente caotica, in particolar modo a causa di una macchina da presa in eccessivo movimento.
Impressione fortunatamente smentita man mano che i fotogrammi avanzano; in quanto, mentre viene rievocato il clima di razzismo a stelle e strisce dei primi anni Sessanta e non mancano di essere citati gli omicidi di Martin Luther King e di John Fitzgerald Kennedy, la narrazione diventa molto più coinvolgente e, grazie soprattutto all’ottimo montaggio di Jonathan Redmond e Matt Villa, lo spettacolo scorre via velocemente nonostante la tutt’altro che breve durata (siamo intorno alle due ore e quaranta di visione).
E, pur non trattandosi di un biopic musicale riuscito e compatto quanto eccellenti predecessori quali La bamba di Luis Valdez e Great balls of  fire! – Vampate di fuoco di Jim McBride, tra quel “Glory glory hallelujah” che chiude An american trilogy e la rilettura di Unchained melody con immagini del vero Presley in concerto finiamo per avere in fotogrammi uno sfarzoso prodotto al di sopra della media… che non mancherà neppure di spingere alla commozione i fan elvisiani irriducibili.

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