Dal 23 Giugno 2022 nelle sale cinematografiche italiane, Black phone prende le mosse da un racconto scritto da Joe Hill, figlio del re dell’horror su carta Stephen King (il suo nome di battesimo, infatti, è Joseph Hillström King), presente all’interno della raccolta Ghosts.
E, sebbene sulla carta si lasciava immaginare in qualità di ennesimo slasher a base di squartatore impegnato a collezionare morti, tutt’altra è la direzione che prende il lungometraggio diretto da Scott Derrickson, autore, tra gli altri, del quinto Hellraiser, di The exorcism of Emily Rose e di Sinister.
Il Sinister da cui, oltretutto, proviene Ethan Hawke, qui nascosto dietro la inquietante maschera dal ghigno diabolico indossata dal folle, a quanto pare già responsabile di diverse giovani vittime.
Vittime con le cui anime si trova a conversare proprio Finney attraverso un vecchio telefono disconnesso presente nella sua prigione, ricevendo da loro consigli utili per mettersi in salvo.
Un’idea, dunque, non proprio originale se pensiamo che qualcosa di simile già era stato proposto sullo schermo (citiamo soltanto Poltergeist II – L’altra dimensione, del 1986) e che va ad aggiungersi ad un’altra serie di stereotipi tipici del brivido in fotogrammi.
A partire dal fatto che gli indizi forniti dai defunti al ragazzo per far sì che trovi progressivamente il modo di fuggire non possano fare a meno di suggerire analogie con altre opere dalla claustrofobica ambientazione in una stanza chiusa, come Escape room o i primi capitoli della saga Saw.
Aggiungiamo poi inquietanti apparizioni spettrali improvvise atte a garantire l’indispensabile dose di jump scare e perfino una bambina dalla mantella gialla sotto la pioggia, che fa tanto (e probabile) omaggio a It (riecco Stehen King), ed è chiaro che Black phone altro non si riveli che un frullato di situazioni ed elementi più o meno classici della paura in fotogrammi.
Un frullato comunque guardabile, discretamente teso e sufficientemente coinvolgente che, grazie anche al contributo dell’ottima fotografia di Brett Jutkiewicz e di una nutrita colonna sonora comprendente nel mucchio On the run dei Pink Floyd, rievoca in maniera piuttosto efficace l’atmosfera anni Settanta.
Sebbene ad essere un po’ troppo sacrificato e tutt’altro che provvisto di appeal capace di affascinare sia proprio il boogerman di turno, a proposito del quale vengono date pochissime notizie. Tanto che ci si chiede cosa sarebbe cambiato se al posto di Hawke lo avesse interpretato qualcun altro.
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