Nella immaginaria Clerville di fine anni Sessanta è immediatamente un frenetico inseguimento automobilistico ad aprire Diabolik, secondo tentativo di trasporre sul grande schermo le imprese del Re del terrore su carta creato nel 1962 da Angela e Luciana Giussani.
Un cinecomic (ma allora sicuramente non si usava ancora questo termine), quello baviano, che, pur non perfetto, nella sua originale estetica dal sapore pop ha finito per rappresentare un modello d’ispirazione agli occhi di diversi maestri della celluloide affermatisi in seguito, a cominciare dal Tim Burton di Batman, che non ha mai nascosto la profonda ammirazione nei confronti dell’autore de La maschera del demonio e La frusta e il corpo.
Eppure, tra i suoi pregi quel cinecomic aveva almeno un John Phillip Law perfetto nel ruolo dell’assassino mago dei travestimenti, a differenza del solitamente lodevole Luca Marinelli che, un po’ come già accadutogli in Fabrizio De André – Principe libero, appare del tutto inadeguato e fuori parte in questa rilettura 2021 – liberamente tratta dagli albi L’arresto di Diabolik e L’arresto di Diabolik: il remake – a firma dei Marco e Antonio Manetti meglio conosciuti come Manetti Bros, reduci dal David di Donatello conquistato grazie al musical Ammore e malavita.
Rilettura che, al posto della indimenticata Marisa Mell, cala comunque alla grande Miriam Leone nei panni della sensuale ereditiera Eva Kant, in possesso del diamante rosa cui è interessato il protagonista, fidanzato con l’ignara infermiera Elisabeth Gay alias Serena Rossi.
Protagonista alla cui ricerca è un ispettore Ginko incarnato da un Valerio Mastandrea quasi da fastidioso effetto cosplayer, il quale completa il cast principale insieme ad un Alessandro Roja vice ministro della giustizia Giorgio Caron e ad una Claudia Gerini signora Morel.
La Claudia Gerini che, tra l’altro, diretta da Lamberto Bava interpretò curiosamente proprio la citata Kant nel videoclip della canzone Amore impossibile dei Tiromancino e che è presente, in realtà, soltanto in una brevissima fetta delle oltre due ore e dieci di Diabolik manettiano.
Oltre due ore e dieci tra i cui difetti potremmo includere anche la varietà di dialetti totalmente fuori luogo tirati in ballo nelle parlate di diversi personaggi secondari, ma che individuano la loro maggiore pecca nella freddezza regnante. Tanto che, nonostante la lodevole cura fotografico-scenografica rispecchiante in maniera fedele atmosfere e look sixties, lo spettatore non riesce mai ad essere realmente coinvolto e, di conseguenza, non esita a sprofondare nella noia.
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