Già agli inizi della pandemia da Covid 19 si iniziò a parlare riguardo le prime evidenze scientifiche in merito a una correlazione tra la vitamina D e il coronavirus. Ora, anche secondo un recente studio pubblicata sulla rivista Plos On, la tesi si rafforza notevolmente.
La sperimentazione, coordinata da Michael F. Holick, professore di Fisiologia, Biofisica e Medicina molecolare alla Boston University, è stata effettuata su oltre 190mila persone, sottoposte a tampone per Covid (SARS-CoV-2): circa il 13% di quelli con livelli di vitamina D inferiori alle dosi raccomandate (con meno di 20 nanogrammi per millilitro presenti nel sangue) è risultato positivo al virus. Al contrario, poco più dell’8% di quelli con livelli intermedi di vitamina D (30 a 34 nanogrammi per millilitro) e solo il 6% di quelli con livelli elevati (55 nanogrammi per millilitro o più) è risultato positivo al virus. I test per il Covid erano stati eseguiti tra metà marzo e metà giugno 2020.
Sebbene il nostro corpo produca vitamina D se esposto al sole, il livello di radiazione solare in alcuni paesi del nord, nei periodi invernali è talmente debole che il nostro corpo non riesce a produrla. In questi casi si ricorre all’utilizzo di integratori alimentari specifici.
Tuttavia la natura ci mette a disposizione un’ampia scelta di alimenti in cui possiamo assimilare la vitamina D, come in alcuni pesci, tra cui tonno, salmone, aringa e sgombro, ma poi anche nelle uova, fegato, burro, funghi, cacao, cioccolato fondente e in alcuni tipi di formaggi grassi.
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