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Dopo gli ultimi fatti dell’uccisione del pilota giordano appartenente alla coalizione anti-Isis e prima ancora il feroce attentato del 7 gennaio a Parigi presso la redazione del giornale satirico Charlie Hebdo, evidenziando così un duro colpo alla libertà di stampa e di espressione, tutto il mondo si chiede chi sarà la prossima vittima, dove colpirà il terrorismo e come difendersi.
Antonella Colonna Vilasi, docente italiana, presidente del centro studi sull’intelligence e prima autrice europea ad aver pubblicato una trilogia su questi temi, ci spiega, con un “Dizionario sui movimenti jihadisti“, le dinamiche di questa strategia della tensione delineandone i contorni con una fotografia dei principali gruppi protagonisti.
«Si presentano ovunque tanto da rappresentare un problema internazionale e, quindi, su di essi non si può fare un’analisi di intelligence locale. Si tratta di movimenti magmatici a volte caratterizzati da piccolissimi gruppi di persone, anche solo due o tre, e i militanti possono appartenere a qualsiasi tipo di estrazione sociale. È una realtà presente negli Stati Uniti, ma molto strutturata in ogni paese europeo come dimostra l’assalto alla redazione di Charlie Hebdo, in cui gli autori della strage erano i due fratelli Kouachi, franco-algerini. I movimenti jihadisti hanno al loro interno, ormai, europei a tutti gli effetti di prima, seconda e terza generazione e questo rende il problema molto radicato e più difficile da contenere».
Ormai internet dà accesso a un mondo parallelo. Quanto la rete può condizionare e far evolvere nel mondo questo allarmante fenomeno?
«Molto. È apparso evidente già in occasione delle cosiddette “primavere arabe”, cioè la serie di proteste e agitazioni cominciate tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011. L’uso dei social network, come Facebook e Twitter, ha permesso in tanti paesi, come Siria, Libia, Algeria, Iraq, Giordania, di organizzare e divulgare eventi a dispetto dei tentativi di repressione statale e questo ha decretato anche la conclusione del mandato di Zine EI-Abidine Ben Ali, presidente della Repubblica di Tunisia. Attraverso la rete i militanti armati affinano strategie comunicative efficaci, utilizzando tecniche di adescamento di cui non tutti sono a conoscenza. Ad esempio, su Twitter il profilo “Stato islamico del gatto” nasconde, con la passione per i piccoli felini, una vera e propria chiamata alle armi per i possibili combattenti dell’ISIS. Con attrazioni di questo genere i soldati cercano di intenerire i followers per poi trasformarli in loro mascotte».
Se il terrorismo è un nemico invisibile e imprevedibile, esiste un modo per arginare questo fenomeno e la conseguente, inevitabile angoscia generale?
«Angelino Alfano, il ministro dell’Interno del governo Renzi, con la collaborazione del guardasigilli Andrea Orlando, ha già predisposto un pacchetto antiterrorismo il cui obiettivo è il contrasto delle modalità emergenti con cui si manifesta la minaccia jihadista. Vista la gravità del pericolo terroristico, in particolar modo dopo Parigi, lo scopo è quello di rafforzare gli strumenti di prevenzione e repressione. Si prevedono alcune importanti modifiche al codice penale, ma ci si prepara ad una vera battaglia sul web perché, come detto, molto usato dall’ISIS e dagli altri gruppi terroristici. Verranno oscurati i siti che fanno propaganda islamica e sarà stilata una “black list” dei siti filo-jihadisti, con rimozione dei contenuti incriminati. Si pensa alla creazione di una procura nazionale antiterrorismo da introdurre nell’ambito della procura nazionale antimafia».
Prima ancora che nei tribunali, gran parte del lavoro avviene proprio a livello di intelligence?
«Certamente. È, infatti, di primaria importanza uno spirito di squadra tra i paesi. È necessario che vengano fatti sforzi comuni e che ci sia uno scambio di dati con una maggiore condivisione da parte di tutti. Il grosso problema dell’Europa è che c’è un’unione economica ma assolutamente non politica e ognuno è geloso delle proprie informazioni preventive, senza predisporsi in modo costruttivo al lavoro di gruppo e alla collaborazione. Bisogna, dunque, introdurre anche strumenti centralizzati di coordinamento delle investigazioni in materia di terrorismo».
Dopo gli ultimi tragici avvenimenti di Parigi, l’Italia deve considerarsi tra i paesi più a rischio di attacchi?
«Non particolarmente. Francia, Olanda e soprattutto Gran Bretagna sembrano essere nel mirino e, quindi, molto più in pericolo da questo punto di vista. L’Italia, però, si è giustamente allineata all’Europa nelle misure di sicurezza da prendere in quanto sede del Vaticano e parte di quell’Occidente da sempre sotto attacco terroristico. C’è uno stato di massima senza, tuttavia, creare inutili atmosfere di panico. La situazione è sotto controllo anche grazie ad alcuni approcci prettamente pratici. Saranno fatti controlli più accurati nei luoghi di massima affluenza come gli aeroporti e in molte regioni d’Italia, tra cui ultimamente in Basilicata e Abruzzo, in cui alcune moschee ed altri luoghi di culto islamico sono sotto osservazione».
Da studiosa e appassionata qual è la sua opinione sulla nascita e sullo sviluppo così prepotente della “guerra santa”?
«Credo che l’lslam non abbia niente a che vedere con questa degenerazione e che, quindi, sia un grave errore generalizzare. I movimenti che tratto nel dizionario e che preoccupano sono rappresentati da frange estreme, alla deriva».